Per una riflessione su Romagricola – di Vezio De Lucia

Da Flickr - Fabiana

Riceviamo e pubblichiamo un’intervento offerto da Vezio de Lucio sull’iniziativa Roma Agricola

di Vezio De Lucia – Urbanista

Vezio De Lucia

Sono persuaso che Romagricola possa svolgere un ruolo importante nel dibattito sulla capitale. Finora a determinare il futuro della città sono stati gli interessi espressi dall’urbanizzazione – quella esistente e quella prevista – mentre è assente o insignificante la rappresentanza dell’altra metà di Roma: quella dello spazio aperto, del verde, dell’agricoltura, di quanto resta della civiltà rurale, delle cooperative agricole e sociali, dell’ambientalismo, della salute, dei giovani interessati a tornare al settore primario. Dobbiamo attivarci per invertire la gerarchia tradizionale, mettendo al primo posto la campagna, proponendo politiche e pratiche di tutela e di valorizzazione (a partire dalle proprietà pubbliche).

Ma per ottenere davvero il ribaltamento dobbiamo essere capaci di rendere centrale, specialmente in questi mesi di avvicinamento alla stagione elettorale, l’azzeramento del consumo del suolo. Se fosse vero, come molti sostengono, che dopo il Covid-19 saranno inevitabili cambiamenti radicali nella cultura pubblica e nell’azione di governo, non dovrebbe essere difficile far comprendere che fermare il consumo del suolo è urgente quanto l’irrinunciabile potenziamento del sistema sanitario pubblico (statale e universale). In altre parole, la crisi determinata dalla dissipazione del territorio non è meno grave di altre crisi come quelle economiche e finanziarie (oso aggiungere anche quelle provocate da epidemie) più o meno lunghe, più o meno dolorose, ma dalle quali infine si viene fuori. Le conseguenze della disastrosa crescita delle città sono invece irreversibili.

In passato, l’immagine di Roma è stata sempre associata alla sconfinata distesa agricola che circondava la città, tra l’altro la più preziosa riserva archeologica del mondo. Tutto ciò è finito negli ultimi quarant’anni. Il peggio è successo con il PRG adottato nel 2003 e approvato nel 2008, con una previsione di 65 milioni di metri cubi di nuova edilizia (vedi l’articolo di Vittorio Emiliani su la Repubblica del 23 aprile). Il numero di abitanti è più o meno lo stesso da decenni, ma continua il consumo del suolo. Nonostante il gravissimo sovradimensionamento, il lucido disegno che qualificava il PRG 1962-1965 – e cioè lo spostamento della grande direzionalità pubblica dal centro storico alla prima periferia orientale (il famoso SDO), l’arresto dell’espansione a Sud e a Ovest, l’invenzione degli standard urbanistici, ecc. – è stato sopraffatto dal PRG 2003-2008 e dagli inediti e letali “istituti” (chiamiamoli così) che lo hanno accompagnato: i “diritti edificatori” e la “compensazione”[1].

Mi limito a ricordare sommariamente il caso di Tor Marancia, una grande tenuta fra l’Appia Antica e l’Ardeatina di 200 ettari miracolosamente sopravvissuta, dove il precedente PRG localizzava circa 20.000 abitanti. Per azzerare l’assurda previsione, invece di limitarsi a confermare l’uso agricolo ancora in essere, il comune ha fatto ricorso a una ridondante previsione di verde pubblico. La conseguenza è la seguente: per la cancellazione di circa 1.800.000 mc previsti dal piano del 1965 è stato necessario trasferire in altre parti del territorio comunale una cubatura triplicata (circa 5.000.000 di mc). È stata infatti necessaria una doppia remunerazione, quella a favore dei proprietari della tenuta di Tor Marancia e quella a favore dei proprietari dei suoli dove vengono dislocate le cubature trasferite e incrementate (per il minor pregio delle nuove localizzazioni).

A conferma di tutto ciò cito Walter Tocci, l’unico assessore delle giunte di sinistra che ha avuto il coraggio di fare autocritica. In un libro del 2008, Avanti c’è posto, scritto con Italo Insolera e Domitilla Morandi, denuncia che a Roma si è formato “uno dei più grandi esempi di sprawl in Italia e per certi versi anche in Europa. È paragonabile a quello dell’area milanese e a quello del Nord-est, ma prende gli aspetti peggiori di entrambi, la forte gravitazione del primo e la bassa densità del secondo”. Più avanti sostiene che quello del 2003-2008 non si può neppure definire un nuovo piano, ma è una variante di quello del 1962, di cui condivide la “forte geometria espansiva. Attuare oggi quelle previsioni urbanistiche è in un certo senso più grave che averle pianificate negli anni sessanta”. Nessuno di noi, critici da sempre del piano di Roma, era arrivato a questa conclusione.

Se è vero che il consumo del suolo è oggi inferiore a quello dei decenni trascorsi, è però molto più preoccupante il modo nel quale si manifesta. Mi riferisco alla densità delle nuove edificazioni. Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, gli anni d’oro della speculazione, l’ampliamento delle città avveniva con densità paurose, anche 1.000 abitanti/ettaro. A Roma esempi noti a tutti sono il quartiere della Magliana e quelli di edilizia intensiva che fiancheggiano le vie Tiburtina, Prenestina, Casilina, Tuscolana, ecc. Oggi l’espansione della capitale e della maggioranza dei comuni italiani avviene con densità irrisorie, addirittura 10 abitanti/ettaro. È per questa ragione che, pur essendo quasi ovunque in decremento i residenti e ridotti i bisogni di alloggi, attrezzature, servizi, infrastrutture, non si ferma il consumo di suolo.

Per quanto sembri paradossale, chi vive negli insediamenti di ultima generazione sta peggio di chi abita negli intensivi del secolo scorso. Quasi un terzo dei romani, quelli espulsi dal centro storico e dalle zone semicentrali per dar spazio ai turisti e al turismo, vive ormai in una specie di raffazzonata città lineare a bassissima densità a cavallo del Gra, in condizioni alienanti, forse accettabili dal punto di vista dello standard edilizio, ma abominevoli quanto a qualità della vita sociale. Si pensi alla mobilità: i pessimi quartieri del dopoguerra sono o possono essere serviti da ragionevoli sistemi di trasporto pubblico, metropolitana, tram, autobus. Viceversa, gli abitanti dei nuovi nuclei residenziali, sempre più sparpagliati, sconnessi dalle aree centrali della città, dai luoghi di lavoro e dai servizi essenziali (istruzione, commercio, sport, salute), sono destinati a essere coatti a vita dell’automobile alla quale sacrificano fino a più di due ore al giorno con una permanente esposizione allo stress e all’inquinamento, fattori determinanti ai fini della salute (cfr. i luoghi di massima espansione del Covid-19).

Che fare allora? L’unica soluzione è l’azzeramento delle previsioni di sviluppo edilizio in area agricola, mettendo mano a una nuova stagione urbanistica, avviando una nuova pianificazione fondamentalmente basata su una linea rossa che segna il confine fra lo spazio urbanizzato e quello non urbanizzato, una linea che deve rappresentare nuove e invalicabili mura urbane. All’interno delle quali convivono le due principali componenti della città contemporanea: il centro storico e l’espansione degli ultimi settant’anni che ormai copre – dove più, dove meno – il novanta per cento dello spazio urbanizzato. È qui che si dovranno realizzare i nuovi interventi di restauro urbanistico, risanamento, recupero, e anche nuova edificazione.

Attenzione, quello proposto è un percorso molto meno drammatico di come sembra e chi conosce le condizioni attuali delle città italiane sa che la strategia dell’insormontabile linea rossa non è un’utopia e imporre lo stop al consumo del suolo non va confuso con il cosiddetto sviluppo zero. Siamo pienamente consapevoli che a Roma sono ancora numerosi i bisogni da soddisfare (attrezzature, servizi, case popolari) e sarebbe insensato pensare di limitarli, visto che le disponibilità di spazio all’interno della linea rossa consentono di far fronte tranquillamente a ogni necessità. In breve, è come prendere due piccioni con una fava: i nuovi interventi localizzati all’interno dell’attuale sistema insediativo soddisfano bisogni pregressi, agendo al tempo stesso come focolai di riqualificazione.

Che il consumo di suolo = 0 non sia un’utopia è dimostrato da due recenti e importanti esempi:

  • il primo riguarda il PRG di Napoli 2001-2004, l’unico strumento urbanistico di una grande città che ha davvero fermato il consumo del suolo e si attua solo attraverso interventi di conservazione, di trasformazione e anche di nuova edificazione all’interno della città esistente. A Napoli, già indiscussa capitale della più sordida speculazione immortalata da Francesco Rosi nelle Mani sulla città, il consumo del suolo è stato sapientemente annullato da quasi vent’anni, senza significative reazioni del mondo delle costruzioni (anche il presidente dell’Acer Nicolò Rebecchini su la Repubblica del 26 aprile ha scritto: “siamo i primi a volere zero consumo di suolo, ma lo stato non fa una legge”);
  • il secondo esempio è la legge urbanistica dalla Toscana 65/2014 dovuta alla determinazione di Anna Marson, assessore dal 2010 al 2015. La novità sta nell’art. 4 che ferma definitivamente il consumo del suolo con una formulazione giuridicamente essenziale. Ciascun comune della Toscana è obbligato a distinguere nel proprio territorio la parte urbanizzata e la parte non urbanizzata. Le cose da fare per soddisfare i bisogni pregressi vanno tutte realizzate dentro al territorio urbanizzato. All’esterno non è possibile fare edilizia residenziale; manufatti diversi dalle residenze sono consentiti nel rispetto di rigorose procedure che prevedono il potere di veto della regione. Insomma, in Toscana le case in campagna sono proibite per legge.

Concludo tornando a Romagricola e alle scadenze elettorali che ci aspettano per il comune e la regione. Secondo me, Romagricola non può stare in disparte, ma non bastano le iniziative finora programmate (conferenza sull’agricoltura, occupazione delle terre, critica ai bandi regionali, ecc.). Soprattutto a Roma, a decidere sarà come sempre la politica urbanistica, anche se camuffata sotto altre sembianze. Ovviamente, non propongo la trasformazione del nostro sodalizio in un circolo di specialisti in urbanistica, ma cose più semplici, cominciando con il chiedere a Carlo Cellamare di organizzare, se è d’accordo e quando può – per ora inevitabilmente in forma telematica – un incontro di approfondimento sulla questione del consumo del suolo.

Un’altra proposta è di invitare alle nostre iniziative (e, se del caso, a far parte di Romagricola) qualche esponente di associazioni d’indiscussa qualità e competenza, già operosamente impegnate su temi di nostro interesse, come Italia Nostra, Salviamo il paesaggio, Carteinregola, ecc.

Tutto ciò anche in vista di una nostra consapevole, autonoma e attiva partecipazione alla stagione elettorale.

[1] I diritti edificatori sarebbero le previsioni del PRG 1962-1965 che sventatamente il comune di Roma trasforma in diritti acquisiti. Per rimuovere le vecchie scelte di piano non più sostenibili (il PRG del 1965 era dimensionato per 5.000.000 di abitanti), nell’impossibilità di far ricorso all’esproprio, l’unica possibilità è la compensazione, cioè il trasferimento della previsione in altre parti del territorio comunale, innescando una spirale perversa di espansione.